I vini dell’Artsakh, gli ultimi testimoni di un gusto

La rassegna Wines of war prosegue con una serata speciale, toccante e densa di significato. Grazie a Massimo Recli abbiamo il privilegio di ripercorrere la storia della Repubblica dell’Artsakh e di assaggiarne i vini prodotti prima della fine della sua esistenza.

Sara Passerini

Artsakh, una storia dolorosa

Quando si parla di vino si parla sempre, inevitabilmente, anche di storia. In questa serata, ospitata da AIS Milano, più di altre volte diventa fondamentale inquadrare il territorio in esame e le sue vicende, non solo perché la produzione vinicola è strettamente collegata ai fatti di guerra e ora che il territorio è stato svuotato del suo popolo e i vigneti confiscati non si sa quale direzione prenderanno vigne e tradizione, ma soprattutto perché raccontare i fatti significa ricordare una storia e un popolo che, in questo tempo contemporaneo in cui la storia viene costantemente riscritta da chi detiene il potere, rischiano di essere dimenticati.

L'Artsakh, conosciuto anche come Nagorno Karabakh, è una regione del Caucaso meridionale situata tra Armenia, Azerbaigian e Iran, con confini che sono cambiati più volte e con una storia complessa e tumultuosa che si trascina dagli anni Venti del Novecento, ovvero da quando lo Stato sovietico ha conquistato il Caucaso meridionale a oggi.

Nella primavera del 1921 Stalin assegnò alla Repubblica Socialista Sovietica Azera il Nagorno-Karabakh nonostante la sua popolazione fosse soprattutto armena (lo testimonia una ricchissima eredità culturale e storica). Il Nagorno-Karabakh divenne quindi un’òblast’, una regione autonoma all’interno della Repubblica Socialista Azera. Stesso destino toccò al Nachicevan, regione abitata principalmente da azeri, ma separata dal resto della repubblica dal territorio della RSS Armena.

Per certi versi il dominio sovietico congelò le tensioni territoriali tra Armenia e Azerbaigian per decenni. Tuttavia, alla fine degli anni Ottanta, la questione del Nagorno-Karabakh tornò in primo piano. A partire dal 1987 gli armeni si mobilitarono per chiedere a Mosca di riunire il Nagorno-Karabakh all’Armenia.

Il 30 agosto 1991, il Soviet supremo della RSS Azera votò per l'indipendenza dall'URSS, in base a una legge che permetteva alle regioni autonome di scegliere il proprio destino nel caso in cui la repubblica di appartenenza si fosse staccata dall'Unione. Il 2 settembre 1991, il Nagorno Karabakh dichiarò l'indipendenza dalla neonata repubblica dell'Azerbaigian. Nel 1992 cominciò la Prima guerra del Nagorno-Karabakh che si concluse nel 1994 con la firma di un accordo di cessate il fuoco a Biškek, in Kirghizistan. Le forze armene ebbero la meglio: espulsero l’esercito azero dalla regione e occuparono parzialmente anche sette distretti azeri limitrofi al Nagorno-Karabakh, incluso il corridoio di Lachin che unisce la regione del Nagorno Karabakh all’Armenia, e altre aree che si frapponevano tra il territorio armeno e l’ex-oblast’ autonoma.

Da allora seguirono trent’anni di quello che veniva impropriamente definito come un “conflitto congelato”, decenni di scontri, guerre e scaramucce lungo la linea di contatto. Scrive il giornalista Aleksej Tilman: «Nel frattempo, in Armenia e Azerbaigian un’intera generazione cresceva nell’odio reciproco e nel ricordo delle violenze subite nel corso della guerra degli anni Novanta. La questione del Nagorno Karabakh divenne infatti uno dei miti fondanti del nazionalismo di entrambi i Paesi. Da parte armena la vittoria nel primo conflitto del Nagorno Karabakh rappresentava una sorta di riscatto collettivo per la perdita di quella che viene definita Armenia occidentale, ovvero la parte orientale dell’Anatolia dove viveva una consistente popolazione armena caduta vittima del genocidio del 1915. Da parte azera, il trauma della sconfitta assunse connotazioni altrettanto forti. La macchina propagandistica promuove il Paese come esempio di multiculturalismo nella regione. Ma nella realtà, il minimo comune denominatore del nazionalismo azero negli anni dell’indipendenza è stata l’armenofobia, ovvero l’odio per tutto ciò che è armeno».

All'inizio di aprile 2016 un nuovo attacco azero ha dato inizio alla cosiddetta "guerra dei quattro giorni" o Seconda guerra del Karabakh, con modesti guadagni territoriali a favore dell'Azerbaigian.

Il 27 settembre 2020, l’Azerbaigian lanciò un’offensiva che proseguì fino al 9 novembre. Quarantaquattro giorni di guerra, nei quali l’esercito azero - che grazie alla complicità della Turchia, e soprattutto ai ricavi derivanti dalla vendita di gas e petrolio, aveva potuto finanziare una campagna di riarmo senza precedenti -, ebbe la meglio sulle forze armene. Riconquistò la città Shushi e causò la fuga del 70% degli abitanti armeni della regione. «Con questa guerra è sparita una generazione», dicono i superstiti. Colpisce, nella sofferenza di un popolo, l’indifferenza internazionale.

A partire dal 2022, a causa della guerra in Ucraina, il contingente russo nella regione si è drasticamente ridotto, perdendo efficacia e coinvolgimento. Questo ha consentito all'Azerbaigian di sfruttare la situazione, poiché per Mosca l'alleanza con Baku è diventata prioritaria rispetto a quella con Yerevan. Le sanzioni contro la Russia hanno reso l'Azerbaigian fondamentale sia come transito per le esportazioni energetiche russe sia come fonte di materie prime per gli Stati europei. Questa dipendenza ha reso l'Azerbaigian immune alle pressioni esterne, permettendogli di agire in tutta libertà. Le forze armate azere hanno attaccato il confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian, occupando zone strategiche all'interno del territorio armeno. Questo scontro ha causato centinaia di vittime tra i militari e ha costretto circa 7.600 civili armeni a sfollare.

Nello stesso periodo si è verificata una grave crisi umanitaria nell'Artsakh a causa del blocco delle forniture, delle strade, dell'energia, del carburante, dell'acqua e delle comunicazioni. Le forze di pace russe non sono intervenute a sostegno della popolazione dell'Artsakh mentre gli azeri hanno bloccato i convogli di aiuti umanitari sul corridoio di Lachin. Il 19 settembre 2023, l'Artsakh ha subito un altro pesante attacco da parte dell'Azerbaigian, che ha usato droni, razzi e mortai sia contro le postazioni militari di difesa che contro le infrastrutture civili, soprattutto a Stepanakert. Questo attacco ha causato più di 200 morti, migliaia di dispersi e un numero sconosciuto di sfollati. La maggior parte dei governi europei ha condannato l'azione dell'Azerbaigian, ma non l'Italia.

Il 28 settembre, il presidente della Repubblica dell'Artsakh ha firmato un decreto per lo scioglimento delle istituzioni statali a partire dal 1° gennaio 2024, incluso l'esercito.

Al momento non si può entrare in Artsakh, la popolazione armena è fuggita nella sua totalità e gli occupanti, per quanto si sa, stanno compiendo importanti opere di distruzione e ricostruzione.

Il vino in Artsakh

Che l’Armenia, storicamente, produca vino e brandy è risaputo. Entrando nel dettaglio si constata che gli ettari vitati sono più di tredicimila e le aziende circa un centinaio. Le zone a vocazione vinicola sono, a nord Tavush, da nord-ovest a sud-est: Aragatsotn, Armavir, Ararat, Vayots Dzor, la più recente Syunik e l’ormai perduto Artsakh.

Fino all’ottobre 2023 nel territorio dell’Artsakh c’era la presenza di circa 1730 ha vitati e di 15 aziende. La zona è montana con altitudini medie sui 1000 metri. Per i vini in degustazione le vigne sono allevate tutte tra i 600-700 m s.l.m. I suoli sono argillosi con presenza di sabbie, calcare, agglomerati e basalti di derivazione vulcanica. Il clima è continentale, contraddistinto da estati molto calde e inverni freddi, precipitazioni moderate, e importanti escursioni termiche.

L’Artsakh è la patria della quercia caucasica, un legno usato per botti e barrique di tutta l’Armenia, un legno che nel vino si traduce in una via di mezzo tra la quercia francese e quella americana.

I vitigni coltivati sono principalmente:

L’autoctono khndoghni, detto anche sireni, una varietà tradizionale - il 70% del territorio vitato - presente solo in questo territorio (fermo restando che quando un popolo scappa porta con sé anche le barbatelle), forse di origine iraniana. Uva a bacca rossa, contraddistinta da un grappolo medio-grande, compatto, da una buccia molto spessa e un succo appena tintorio, a maturazione tardiva.

A bacca bianca troviamo il voskehat, nome che significa bacca d’oro, un’antica varietà autoctona dal grappolo medio, con bacche piccole e tonde, a maturazione medio-tardiva e caratterizzata da una buona versatilità enologica. C’è poi il kangun, la varietà solitamente usata per la distillazione, incrocio tra sukhalinskiy eliiy e rkatsiteli, grappolo grande, compatto e ottima resistenza alle malattie fungine e al gelo. Infine, troviamo il rkatsiteli, di origine georgiana, una delle varietà di uva bianca più antiche al mondo, con una lunga storia di coltivazione e produzione di vino nella regione caucasica e nell’Unione Sovietica, almeno fino a quando Gorbačëv non ne ordinò l’espianto.

Nel territorio dell’Artsakh le zone a vocazione vinicola sono: Martuni, Hadrut, Shushi. L’ultima vendemmia, per le ragioni politiche viste sopra, è quella del 2021 e non è stata una vendemmia facile, segnata dalla protezione delle forze di pace russe e dalla paura della presenza di mine nei vigneti.

La degustazione

Sei vini, due bianchi molto particolari e quattro vini rossi di affinamenti e annate diverse, a base khndoghn, il principe dell’Artsakh.

In sala sentiamo che siamo testimoni di un gusto che non ci sarà più, che ogni profumo e ogni tonalità esprimono una tradizione che, almeno lì dove è nata, è in corso di revisione. Sappiamo che queste bottiglie sono le ultime di questa storia che proviamo a raccontare. Accogliamo con rispetto e gratitudine questo privilegio e, cullati dalle immagini dei monti, dei monasteri, dei villaggi e dei vignaioli, diamo inizio alla degustazione.

Berdashen Gishi White Dry Selected 2019 - BH Brandy Company
Compagnia fondata nel 1931, produce brandy, vino e distillati. Nell’Artsakh contava 26 ettari vitati nell’area di Martuni. Il vino è un blend: 70% voskehat, 30% kangun.

Si presenta di un brillante oro pieno con qualche venatura ramata, esordisce con toni generosi di frutta tropicale e agrumi: pompelmo giallo e note citrine intrecciati ad ananas e mango con ricordi di verbena a impreziosire un naso che non ha paura di parlare a voce alta. Al palato si rivela orizzontale, è largo ma non grasso, regala rintocchi di mela verde e kumquat, ha una bellissima sapidità, è pieno e di corpo, rotondo.

Orange 2021 - Khme
Azienda giovane il cui nome significa “bevi”, fondata nel 2019 a Stepanakert. Le uve che l’azienda acquistava e vinificava provengono da Gishi, nell’area di Martuni. Il vino è un blend: 75% rkatsiteli, 25% kangun.

Come dice il nome è un orange, ovvero un vino bianco in cui la vinificazione prevede una macerazione a contatto con le bucce. Giallo profondo, con tonalità aranciate tipiche della tipologia, splendida luminosità. Racconta dapprima di sensazioni vegetali e dopo un istante vira sulle tracce di una pesca matura ed erbe aromatiche; poi l’albicocca secca, fiori di camomilla essiccati, cenni di susina gialla a braccetto con il tè nero e sentori di fienagione. La memoria di una goccia di distillato conduce al palato, nel quale il tannino si fa sentire senza mai infastidire. Tanta acidità e tanto sale, è un vino saporito che dà molta soddisfazione. Alla seconda olfazione ci stupirà per il direzionarsi di naso e retrogusto verso toni di miele e bergamotto.

Domaine Avetyssian 2021 - Kataro
L’azienda più famosa dell’Arstakh, fondata nel 1994, conta 15 ha vitati a 6-700 m s.l.m. che affondano le radici nelle argille rosse e scure della zona di Hadrut. Il vino è a base khndoghny, vinifica in acciaio e ha svolto la malolattica.

Un rubino fitto fitto con qualche leggera venatura purpurea, un profilo odoroso che comincia semplice con spiccate note di frutto: ribes, ciliegia, mora matura; non mancano la presenza della spezia e un accenno di cacao. Il palato è semplice e succoso, più esile di quanto si possa pensare dal naso, il tannino è importante, il retrogusto è piacevolmente speziato. Un’espressione semplice di un vitigno dalle strepitose potenzialità, come vedremo con i prossimi assaggi.

Berdashen Khndoghny Reserve 2019 - BH Brandy Company
Uve provenienti dalla regione di Martuni, vigne di 25 anni; affina sei mesi in botti grandi di rovere caucasico.

D’aspetto luminoso, un rubino quasi impenetrabile dall’orlo gentilmente granato. Esordio agrumato, poi subito il corniolo in confettura, un frutto lavorato ma che mantiene una verve acida. Sentori davvero gradevoli e invitanti che dal frutto virano, man mano che il vino sosta nel calice, a indizi resinosi. Il palato è più strutturato del vino precedente, il tannino deve ancora integrarsi, ma non manca l’abbraccio di confettura di rosa e uno sprint speziato che lascia il ricordo di un palato in potenza.

Special Red Dry 2018 - Alluria
Azienda armena della famiglia Machanyan, con vigne in Artsakh nella zona dell’Hadrut.

Colore di grande pienezza e splendore, quasi un inchiostro color sangue. Un ventaglio di profumi esemplare, vivissimi e di grande attrattiva: si apre con la ciliegia, cui seguono tabacco scuro, pepe nero; un’allure floreale coronata da chicchi di caffè. È un naso a cui si continua a tornare per leggerne le pieghe, le aperture, le giravolte. In bocca il tannino è ben integrato, ha un ottimo equilibrio e una buona acidità, è lungo e generoso, il retrogusto rimanda all’antico gusto dell’amarena Fabbri. Lo riassaggiamo a fine serata, e notiamo che il naso si è fatto pot-pourri arricchito da erbe aromatiche secche.

Berdashen Khndoghny Barrel Aged 2012 - BH Brandy Company
Vigne di almeno 25 anni, minimo due anni in botti di rovere caucasico e una produzione di circa 1.500 bottiglie.

Restiamo stupiti dalla tenuta del vino allo scorrere del tempo, lo rimiriamo con ammirazione, un colore pieno, scuro, ricco di pigmento e di materia colorante, nessun cedimento di colore. Il naso è un superbo affresco di frutta a bacca scura, lavorata, ed erbe aromatiche: sentiamo rosmarino, ginepro, toni boschivi, resine, cenere. Il palato è vivace, il tannino perfettamente integrato, decisa acidità mai invadente, è sapido e lungo. Si congeda con aromi di amarena e menta e notiamo con piacere che nonostante questa resistenza al tempo il corpo è leggiadro e affatto pesante.

La serata si chiude con un confronto molto sentito sui vini e sulla storia, sul senso d’impotenza e sulla tenacia. Massimo Recli ci mostra un video in cui Andrianik Manvelyan, enologo dell’Azienda Kataro, ci saluta e ringrazia per l’attenzione verso questo territorio e questi vini. A noi non resta che bere gli ultimi sorsi nei calici e farci, nel nostro piccolo, testimoni di un gusto.