Ronchi di Cialla ovvero...la storia dello schioppettino

Ronchi di Cialla ovvero...la storia dello schioppettino

Interviste e protagonisti
di Alessandro Franceschini
07 aprile 2009

L'incontro con la famiglia Rapuzzi. Dal 1970 ad oggi, la storia del salvataggio dello schioppettino...

Qualche agronomo, interpellato per avere lumi circa l’atipicità di quei grappoli, aveva consigliato di spiantare il tutto e rifugiarsi in varietà più sicure e redditizie. Ma a chi aveva già rischiato, abbandonando la città per vivere in una stretta valle al confine con la Slovenia e che aveva vissuto sulla propria pelle quell’intruglio di sensazioni di impotenza, ansia ed angoscia insieme come solo, probabilmente, un terremoto può dare, non doveva sembrare poi così folle ed inconcepibile continuare a credere in una varietà oramai in estinzione, totalmente sconosciuta, ma così tipica ed unica al tempo stesso: lo schioppettino. La storia di Dina e Paolo, cioè della famiglia Rapuzzi, non è probabilmente unica nel suo genere: l’Italia ed il mondo della viticoltura, sanno raccontare e tramandare vicende che nel tempo si trasformano quasi in fiabe, si trasfigurano e magari si arricchiscono di aneddoti acquisendo un alone quasi leggendario e lontano dalla realtà. Qui di realtà e fatti concreti, invece, ce ne sono tanti, a cominciare dai protagonisti, che questa volta sono almeno due: un vitigno ed una famiglia che ha deciso di legarvi il suo nome in modo totale. Tutto inizia nel 1970: i Rapuzzi giungono a Cialla, oggi nota sottozona, provenienti da Udine, come scelta di vita: la fillossera, da queste parti, tra fine ottocento ed inizio novecento aveva estinto più di cento varietà autoctone. Qui, Dino e Paola, decidono di rimanere legati alla tradizione ed in questo eremo posto a nord-est, ultimi nella stretta vallata, si dedicano alla viticultura: verduzzo e picolit “uve nere mascherate da bianche, gli mancano solo gli antociani” e refosco, l’unico trovato in quegli anni. Ma la curiosità li spinge oltre: dai discorsi con gli anziani della zona vengono a sapere che qui un tempo si veniva a cercare anche la “pocalza”, tipica di Prepotto. Sembrava introvabile. Il sindaco Bernardo Bruno ne aveva ancora qualcuna nell'orto. Da qui comincia la conoscenza con questo vitigno, detto anche ribolla nera, oggi noto come schioppettino. Non esistevano vigneti, ma barbatelle sparse in giro si. In un anno Dino ne recupera circa un centinaio, le fa innestare clandestinamente a Rauscedo, e così comincia l’avventura, con i primi 3 ettari piantati con questa inesistente varietà. Siamo nel 1972. La voce corre e loro d’altronde non avevano fatto nulla per nascondere quello che stavano facendo. Nel 1975 vincono addirittura un premio, che ancora fa bella mostra a casa Rapuzzi, sponsorizzato dalla nota azienda Nonino, conferito a chi avesse fatto qualcosa di innovativo nel mondo contadino. Loro avevano salvato lo schioppettino. Nel 1976 irrompe il terremoto: decimo grado della scala Mercalli, 989 morti e più di 45mila senza tetto. La zona più colpita quella a nord di Udine. La cantina viene distrutta, ma soprattutto la serenità viene perduta: la terra trema ancora due volte, con intensità poco inferiore l’11 settembre dello stesso anno, ma uguale, se non superiore alla prima, di maggio, ancora quattro giorni dopo. La voglia, non solo di mollare tutto, ma soprattutto di fuggire altrove è forte ed i Rapuzzi, come è logico, ci pensano e stanno quasi per trasferirsi. Ed invece, un anno dopo, nel 1977 c’è la prima vendemmia ufficiale. Oggi gli ettari vitati sono circa 23 e possiamo annotare come Cialla doni allo schioppettino quelle doti di finezza e speziatura, soprattutto in gioventù, che invece più a sud si trasformano in toni più fruttati, maturi ed immediati, ma non così emozionanti. Lo schioppettino “ha bisogno di una zona fresca e non direttamente esposta al sole, altrimenti i grappoli si seccano e l’uva cade”: sono grappoli delicatissimi, che richiedono operazioni di sfogliatura non eccessive e di habitat dotati di boschi e acqua nelle vicinanze, non della cima di una collina. Lieviti indigeni e barrique: la scelta di questo contenitore dopo un colloquio con un certo Tachis che dice loro: “Se io avessi queste uve mi divertirei ad elevarle in barrique”. Ed il divertimento, negli anni, ha dato i suoi frutti: tannini setosi, sottili, quasi terrosi, una bevibilità estrema, un’aromaticità tutta giocata, in gioventù, sulle note di pepe e nel lungo periodo su accenti di scorza di agrumi e sottobosco. Tostature, sovrastrutture o legnosità varie, neanche l’ombra. Uno dei figli, Pierpaolo, ci dice: “Non ci sono trucchi, ma solo accortezza. Uno dei concetti fondamentali per noi è quello di mettere il vino in barrique quando ancora torbido, quindi non filtrato ed usare la tecnica del bâtonnage con molta attenzione, specie per i vini bianchi”. In un mare di bianco, come è il Friuli-Venezia Giulia, dei rossi da invecchiamento: tra un campione del 1988 o del 1983 ed i ricordi della guerra, la Signora Dina rispolvera ricette ignote a chi è poco avvezzo a passare da queste parti e dai nomi curiosi quanto affascinanti per accompagnare i vini: brovada (rape viola macerate nelle vinacce) con cotechino nostrano piuttosto che la gubana, un dolce a pasta lievitata a base di noci, uvetta e pinoli con un bicchiere di fresco, mieloso, ma fondamentalmente autentico picolit.
Da tempo seguono cantina e vigneti anche i figli, Pierpaolo e Ivan, con la passione per l’entomologia ereditata dai genitori e la voglia di portare avanti un’azienda di confine, silenziosa, che resiste nel tempo.

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