Ora il whisky parla anche italiano

Ora il whisky parla anche italiano

Non solo vino
di Maurizio Maestrelli
31 maggio 2024

Non solo Scozia, Irlanda, Giappone o Stati Uniti. L’Italia muove i suoi primi passi nell’affascinante mondo del whisky con la forza di una passione antica e tutto l’entusiasmo dei pionieri. È un fenomeno recente, che ha mosso i primi passi in Alto Adige ma che oggi sta facendo capolino anche in altre regioni della penisola

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 26 Maggio 2024

Quella degli italiani, per il whisky, è una storia d’amore che dura da decenni. Grandi collezionisti, come Valentino Zagatti la cui collezione è finita oggi in un museo di Amsterdam, grandi selezionatori, come Silvano Samaroli solo per fare il nome sicuramente più famoso, rinomati importatori, come Armando Giovinetti i cui Macallan oggi strappano prezzi da capogiro. Alcuni autorevoli esperti affermano che il “single malt”, ovvero il whisky prodotto da una singola distilleria e da una distillazione discontinua, sia praticamente una “invenzione” tricolore, nata cioè dal desiderio, da parte di alcuni preveggenti importatori italiani, di imbottigliare il contenuto di una singola botte. Sia come sia, quello per il whisky è, come dicevamo, un amore vero e duraturo. Tuttavia in pochi avrebbero scommesso, quindici o vent’anni fa, che saremmo un giorno arrivati a parlare di whisky italiano nel senso di prodotto in Italia. Invece, sull’onda di analisi di mercato per le quali i volumi di whisky sono cresciuti dell’8% nel biennio 2021-2022, su previsioni future tutte orientate a un ulteriore trend di crescita, sulle notizie di nuove aperture e anche di riaccensione di alambicchi in Scozia e sulla rinnovata popolarità del whisky irlandese, ecco che alcuni italiani si sono lanciati nell’impresa. Potendo contare su materia prima − cereali di qualità − e know how − molti produttori di whisky tricolore sono infatti esperti distillatori di grappa − i primi whisky made in Italy non potevano tardare ancora troppo ad arrivare sul mercato.

Apripista di quello che solo oggi possiamo descrivere come un vero e proprio fenomeno è stata la famiglia altoatesina Ebensperger. Il loro primo Puni whisky ha visto la luce nel 2015, dopo un regolare e necessario (per legge) affinamento in legno. Un debutto a dire il vero passato quasi inosservato, se non ovviamente nell’ambiente dei cultori dell’argomento, ma un primo segnale che la strada del whisky nazionale poteva essere percorsa con successo. Il Trentino Alto Adige è ancora oggi in effetti la regione più vocata, per così dire, alla produzione del distillato di malto: nel 2016 ha debuttato infatti Psenner, distilleria nata nel 1947 per la grappa, con il suo eRètico, un single malt maturato in botti ex sherry ed ex grappa. E lo scorso anno si sono uniti alla piccola pattuglia di “esploratori” la distilleria Villa de Varda che ha immesso sul mercato anche il primo rye whisky italiano, ovvero un distillato di segale, oltre a ben tre referenze di malto d’orzo e due special release commercializzate dal Gruppo Eataly e la distilleria Roner, altra grande firma nel mondo della grappa italiana, che in collaborazione con Birra Forst ha presentato il suo Ter Lignum, la cui caratteristica specifica consiste nel maturare in botti realizzate con tre tipi di legno differente: rovere, ciliegio e larice, una delle conifere simbolo dell’arco alpino.

Sempre infine in Trentino Alto Adige sembra essere in dirittura d’arrivo con il suo primo whisky, secondo le rivelazioni del solitamente ben informato Whisky Club Italia, anche la distilleria Pisoni di Pergolese mentre, dal Veneto, si è già fatto un nome il Segretario di Stato firmato da Jacopo Poli in quel di Schiavon, a due passi da Bassano del Grappa. Poli, famiglia di distillatori fin dal 1898, sul whisky aveva già cominciato a sognare e sperimentare da diversi anni, la prima distillazione è del 2013, dopo un viaggio in Scozia. Il suo Segretario di Stato − il nome è un omaggio al cardinale Pietro Parolin, anche lui di Schiavon, segretario di Stato del Vaticano proprio dal 2013 − riposa gli ultimi due anni, dopo il blend, in botti che hanno contenuto Amarone. Questo è uno degli elementi caratteristici in alcuni novelli distillatori italiani di whisky, ovvero l’uso di botti ex vino per l’affinamento. Lo fa ad esempio anche il sardo Silvio Carta che usa orzo locale e affina il “new make”, ovvero il distillato giovane appena uscito dall’alambicco, in botti di castagno centenarie che hanno contenuto precedentemente il prodotto principe dell’azienda, la Vernaccia di Oristano. E lo fa in Toscana il giovane Enrico Chioccioli Altadonna il quale, insieme a fratello e sorella, dopo aver fatto conoscere la sua Winestillery con gin, vermouth, bitter e vodka ha annunciato il primo whisky alla fine dello scorso anno. Un whisky maturato in barrique che hanno contenuto i SuperTuscan che la sua famiglia, il padre è il celebre winemaker Stefano Chioccioli, produce nella zona del Chianti Classico; tra l’altro un whisky per il quale, merita di essere evidenziato, Chioccioli ha creato una piccola distilleria in pieno centro storico a Firenze.

Se il legame con il vino o la vinaccia sembra legare diversi produttori, c’è anche chi è arrivato al whisky partendo dalla birra. Emblematico il caso di Strada Ferrata, distilleria nata da un birrificio della Brianza, il Railroad Brewing di Seregno. Il 2024 è l’anno anche del debutto del loro primo whisky, avendo iniziato a distillare nel 2021, ma nel frattempo si sono già fatti conoscere con i loro New Make originali e, recentemente, con tre release di “whisky non ancora whisky”, non avendo ancora compiuto i tre anni d’invecchiamento imposti dalla legge, ma interessanti per l’impiego di malti d’orzo differenti e legni d’affinamento diversi: malto Monaco e legno che ha contenuto un vino passito nel primo caso, malto affumicato e botti che hanno contenuto birra nel secondo e malto torbato e botti ex bourbon nel terzo. Come Strada Ferrata è nato con la birra anche Exmu, birrificio agricolo di Sassari che fin dall’inizio della sua avventura aveva messo nel “mirino” anche la possibilità di distillare il mosto di cereali, peraltro da loro coltivati.

Una pattuglia insomma, non ancora un esercito, ma se a questi pionieri del whisky italiano aggiungiamo i “lavori in corso” come in Veneto Bottega, in Piemonte Bordiga, in Liguria Molino Sassello e in Toscana Nannoni, che il suo whisky a dire il vero lo ha già messo in commercio, il futuro sembra abbia delle buone prospettive. È il mercato del resto che lo chiede e così come nell’ultimo decennio si sono moltiplicati all’inverosimile i gin italiani, oggi la bussola del mercato sta chiaramente segnalando un ritorno in auge per il whisky. Certo, a differenza del gin, il nobile distillato di malto richiede maggiori investimenti e maggior tempo, ma la sfida è stata raccolta e nei prossimi anni sarà sicuramente interessante seguirne le vicende. ◆