La Valtènesi dei rosé

La Valtènesi dei rosé

Speciali ViniPlus
di Giuseppe Vallone
30 luglio 2024

Fine, elegante e dalla spiccata tensione gustativa, il rosé in Valtènesi assume l’essenza propria di un territorio che, attorniato dalle Alpi e lambito dal lago di Garda, esprime con solarità e disimpegno un’anima fatta di essenzialità e sottrazione

Tratto da ViniPlus di Lombardia - N° 26 Maggio 2024

Qualche mese fa il Consorzio Valtènesi e l’Ente Vini Bresciani hanno inaugurato, all’interno dell’ottocentesca Villa Galnica a Puegnago del Garda, la “Casa del Vino della Valtènesi”, pensata per promuovere la conoscenza dei vini di una terra di grande tradizione e altrettanta vocazione turistica. Questa iniziativa e la misura con cui è stata realizzata, danno l’esatta cifra di cosa ambisca essere oggi la Valtènesi. Per tracciarne un quadro esaustivo abbiamo incontrato Paolo Pasini - presidente del Consorzio Valtènesi e proprietario di Pasini San Giovanni -, Alessandro Luzzago - da trent’anni circa alla guida di Le Chiusure a San Felice del Benaco -, Loris Vazzoler e Alessandro Marzotto – rispettivamente direttore tecnico e brand and business development del Gruppo Santa Margherita, dal 2017 proprietario di Cà Maiol. Ne è nato un coro a più voci caratterizzato da un’assonanza di visione e di intenti.

IL DISCIPLINARE, TERRA DI MEZZO
Nonostante l’innegabile capacità evocativa, specie all’estero, del nome “Riviera del Garda Classico”, in questo caso è alla sottozona istituita nel 2016 che dobbiamo fare riferimento. Come ci dice Paolo Pasini, infatti, chi vive tra Padenghe e San Felice del Benaco è consapevole che la DOC, «in quanto contenitore di un territorio piuttosto ampio, necessita di un livello successivo di comunicazione e andrebbe usata a mo’ di ‘geolocalizzazione’ che, nel tenerci tutti insieme, consenta a ognuno di raccontare la sua specifica identità». Un’identità che, quanto ai vini rosé, è tradizionalmente legata al “metodo Molmenti” e all’uvaggio di groppello, barbera, marzemino e sangiovese, ma che, oggi, sta virando verso un maggior ruolo del «figlio agronomico del territorio », come Pasini chiama il groppello, se non addirittura per una sua vinificazione in purezza. Uva fragile e delicata, con una buccia particolarmente sottile, pruinosa e dalle sfumature violacee, il groppello riassume perfettamente l’idea che ha reso il rosé della Valtènesi così personale e riconoscibile, esprimendosi con trama sottile, acidità appena tratteggiata, tannini flessibili e saporita sapidità. E se il disciplinare di produzione è piuttosto elastico verso la storicità di campo, la programmazione di nuovi vigneti o il reimpianto di vecchie vigne va proprio verso una maggiore diffusione del groppello. «Quando rilevammo Cà Maiol», ci racconta Loris Vazzoler, «riscontrammo che buona parte dei nostri vigneti in Valtènesi risaliva agli anni ’70 e ’80, era allevata a casarsa o sylvoz e aveva, già nello stesso filare, le quattro varietà previste per l’uvaggio. La decisione di rinnovarli è stata la perfetta occasione per infittire la densità di impianto, cambiare sistema di allevamento, ridistribuire in modo più omogeneo e logico le differenti varietà ma, soprattutto, per aumentare la percentuale di groppello in vigna».

LO STILE VALTÈNESI
Gli studi in campo e in cantina, le analisi dei terreni e delle caratteristiche intrinseche delle uve, hanno tutti l’unica finalità di consolidare, esaltare e far emergere uno “stile Valtènesi” chiaro e ben definito. E se il disciplinare di produzione è un primo passo in questa direzione e la consapevolezza circa il peso del groppello all’interno dell’equazione è ormai acquisita, è proprio al binomio uva-terroir che deve guardarsi. «Il nostro territorio» spiega Pasini «è costituito da una serie di fattori, come il lago, le Alpi, la tessitura del terreno, fino al sole mattutino, che ci indirizzano verso un’idea di sottrazione ed essenzialità, e il groppello è l’uva ideale per esprimere questo concetto», anche se accompagnato da altre uve che oggi, a differenza che nel passato, svolgono un ruolo di semplice sostegno senza rubare più la scena, né tantomeno snaturare l’essenza ultima del territorio. «Questo è lo “stile Valtènesi”, che non concentra, ma sottrae e verticalizza». Un’anima calda ma leggera che la gente di Valtènesi ha fatto definitivamente propria soltanto in tempi recenti e che, oggi, rivendica con orgoglio come elemento distintivo rispetto a qualunque altro rosé o chiaretto che dir si voglia. «Chiaretto non aiuta a identificare il nostro territorio», puntualizza Alessandro Luzzago, «perché identifica soltanto una tipologia, che comunque va spiegata all’estero e a volte anche in Italia e che comunque non è esclusiva della Valtènesi».

IL FUTURO? DI CERTA V’È SOLO… LA QUALITÀ
La “filastrocca” con cui Paolo Pasini ama definire la Valtènesi ci aiuta ad affrontare l’ultima parte del nostro discorso: «la Valtènesi è un luogo che ha un figlio agronomico – il groppello – che, attraverso un metodo, viene trasformato in un vino che si chiama come il territorio». I punti fermi, dunque, sono tre: il territorio, le uve e lo stile di un vino che, proprio attraverso il groppello, sa e deve riflettere l’ariosità, la leggerezza e l’energica luminosità del “Mediterraneo del nord”. Rimane del tutto non affrontata, invece, la questione della tipologia del vino di Valtènesi e qui le sfumature, tra i diversi produttori intervistati, si fanno più evidenti. «Se lo “stile Valtènesi” è verticalità ed essenzialità», dice Pasini «lo è a prescindere dal fatto che il vino sia rosso o rosé. E se il groppello, tra i vitigni che utilizziamo, è quello che ci aiuta di più nel raggiungere questo obiettivo, il pur prezioso discorso sull’ampelografia e sulla sua matrice autoctona deve per forza di cose cedere il passo alla valorizzazione del territorio». In altri termini, per Paolo Pasini, la Valtènesi dell’oggi e anche del domani è un «concetto di riconoscibilità territoriale, prima ancora che tipologica» così che, per quanto riguarda il rosé, potrebbe ben parlarsi, con uno slogan accattivante, del «”Valtènesi dei rosé” o, parafrasando il celebre album dei Pink Floyd, del “Valtènesi side of the rosé”». Di diverso avviso, su questo punto, è Alessandro Marzotto, che proprio di recente ha curato il rinnovamento dell’immagine di Cà Maiol: «il marchio Valtènesi è conosciuto per il rosé. Sebbene abbia notevoli margini di crescita, e anzi proprio per questo, è da qui che dobbiamo partire, facendo una scelta di campo e adottando l’equazione “Valtènesi uguale rosé”, così che il consumatore, in Italia e all’estero, associ il nome del nostro territorio a questa tipologia». La pensa in sostanza così anche Alessandro Luzzago che, pur riconoscendo che in futuro di Valtènesi potrà facilmente parlarsi in rosso o in rosa, condivide l’odierna esigenza di «semplificare e irrobustire il messaggio comunicativo del nostro territorio», puntando dunque con convinzione su quello che, per tradizione, volumi e richiesta di mercato, è la punta di diamante della produzione valtènesina.

«LA GRANDE OPERA È QUELLA CHE HA PIÙ LIVELLI DI LETTURA»
Al di là di scelte di campo future o attuali e di scenari che potrebbero portare alla richiesta di riconoscimento di una DOCG, sta la profonda fedeltà territoriale e il chiaro stile identificabile del vino rosé di Valtènesi che, con le parole di Pasini, «come tutte le grandi opere ha più livelli di lettura», diretto com’è tanto al consumatore occasionale, che cerca il vino di totale disimpegno, quanto all’appassionato enofilo, che potrà trovare rosé profondi e longevi. «Noi», conclude Pasini, «mettiamo chiunque nelle condizioni di avere nel bicchiere il miglior Valtènesi del mondo, lasciando poi al cliente la scelta di abbracciare l’una o l’altra strada». Nell’assoluta certezza, però, che il rosé di Valtènesi è un vino identitario,, portatore di un messaggio culturale profondo. ◆

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